Una storia vera. Perchè la realtà supera la fantasia e i sogni raggiungono la realtà.

E’ giovedi 2 maggio 2019 ed io sono a San Patrignano con circa 90 miei studenti.

Da sempre sono fortemente attratta dai luoghi dove si raccolgono creature che cadono e si rialzano.

Dentro le vene di San Patrignano scorre sangue rosso vita.

E’ un sangue che si racconta.

Come il sangue rosso vita che ci ha donato Marco (non è il suo nome vero, ma non è questo l’importante del racconto). Non posso farvi sentire le sue pause, il suo tono pacato, il silenzio concentratissimo che ha accompagnato i 35 minuti del suo racconto. Ma posso farvi leggere quello che ha detto, riprendendolo parola per parola, dalla registrazione che ho fatto quel giorno.

Potrete leggere e farvi anche voi la vostra dose quotidiana di coraggio e rinascita. 

Buona lettura a voi e buona vita a Marco!

 

Mi chiamo Marco e sono di ********. In famiglia i miei mi hanno sempre ricoperto di attenzioni ed amato. Anzi, mia sorella era pure gelosa di me per le attenzioni che avevo…. Ma quand’ero piccolo non riuscivo a stare fermo, ne combinavo una dietro l’altra, finché un giorno ne ho combinata una talmente grande che la maestra mi ha preso per i capelli e me ne ha date talmente tante… e poi mi ha messo sotto la cattedra. Quest’episodio mi ha un po’ cambiato perché, da lì in poi, io non sono più stato vivace. Mi sono rinchiuso in me stesso. Non parlavo più. Tornavo a casa, mia mamma mi vedeva strano ed io non dicevo niente. Ero silenzioso. Però dopo alcuni giorni stavo talmente male che mi son messo a piangere ed ho raccontato a mia mamma tutto quello che era successo con la maestra… lei mi ha cambiato scuola. La seconda classe elementare l’ho fatta in un altro istituto. Ma quando sono arrivato lì, io oramai non ero più lo stesso. Se prima ero di compagnia e scherzavo, lì stavo in un angolo, da solo, perché avevo paura delle reazioni degli altri. Non riuscivo ad interagire con gli altri. Ero sempre da solo e venivo preso di mira. Ricordo che anche quando mi chiedevano qualcosa io non riuscivo a parlare tranquillamente. Balbettavo. Sono cresciuto così fino alla quinta.

Ad un certo punto a mia madre una sua amiche le dice: “Fagli fare un po’ di sport al tuo bambino!”. Io non avevo hobby o passioni e così mi sono buttato nel calcio. A circa dieci anni inizio a giocare a pallone e lì trovo la mia passione ed il mio sfogo. Non volevo mai rientrare a casa perché quello era l’unico momento in cui stavo bene. Ma a scuola continuava questo mio malessere con i bambini della mia età. E non stavo bene.

Comincio le medie e continuo a non stare bene con i ragazzini della mia età. Mi vedevo insicuro ed impacciato mentre, al contrario, tutti gli altri li vedevo sciolti e sicuri. In prima media c’è il classico bulletto della scuola. Io non rompevo le scatole a nessuno. Stavo sulle mie. Silenzioso. Però c’era questo Diego che faceva il furbetto ed un giorno mi ha preso di mira. Ce ne siamo date davvero tante. Ci hanno sospeso entrambi. Però quel ragazzino (io) che sembrava non esistere nemmeno, da quel giorno invece…

Qualcosa era cambiato.

Nella scuola si cominciava a parlare di me. Si raccontava che io mi ero fatto rispettare. Ed io mi sono sentito un po’ accettato dagli altri. Mi sentivo nel mezzo e non più in disparte.

Intanto il pallone continuava ad essere nella mia vita. In quel periodo giocavo con un certo Gigi Buffon ed avevo grande passione per quello sport. Poi tornavo a casa ed avevo le regole della mamma. Lei era molto protettiva. Non mi faceva uscire. Se le chiedevo di uscire con altri ragazzi, la risposta era sempre “no”.

Aveva sempre paura che mi succedesse qualcosa.

La mia vita procedeva così: pallone, casa… e poi la mamma con i suoi: “Fai i compiti, stai buono, resta in casa…”.

Non mi mandava mai in giro.

Io vedevo tutti i ragazzi che uscivano ed io no. Venivo preso in giro per questo: “Sei uno sfigato…che stai a fare in casa…vieni fuori che ti diverti…”

Ed io “No, non posso”

Dopo un po’ mio padre si accorse che io ero oramai in sfida con la mamma. Litigavo. La trattavo male. Allora mio padre le disse: “Lascialo andare un’oretta”.

Perciò d’estate, dalle 21.00 alle 22.00 uscivo. Un’ora.

Mia madre mi aveva preso anche uno scooter ma lo tenevo nel garage perché aveva paura che, se lo avessi preso, mi sarebbe accaduto qualcosa…un incidente…sarei potuto cadere…

Ma in quell’oretta di uscita libera, io vedevo ragazzi molto sciolti, che sapevano parlare agli altri…Io avevo paura di stare in mezzo a loro…sapevano parlare con le ragazze io invece ero timido ed impacciato. Avevo paura a dire la mia. Paura di buttarmi nel mezzo. Come al solito mi metto un po’ in disparte.

Solo che un giorno, il classico fighetto della compagnia aveva una birra in una mano e la sigaretta nell’altra. Mi chiama e mi dice: “Bevi insieme a me che ci facciamo due risate insieme!”

Io sono andato da lui. Subito.

Mi sono versato una birra e l’ho bevuta.

Subito mi sono accorto che il mio carattere era cambiato.

Non ero più timido. Ero molto allegro. Sapevo parlare. Ero molto sciolto. Agli altri piacevo così. Ed io ho capito che, stando così, si stava bene.

Così ho cominciato il sabato pomeriggio.

Poi la sera.

Poi la domenica.

Poi tutti i giorni. A stare sempre così. Non a bere tanto, ma bere in continuazione la birra per stare in mezzo agli altri. E non solo.

Inizio ad attirare verso di me le persone, perché dicevano che se io non c’ero, allora non venivano neanche gli altri. Perciò mi sentivo grande.

Non mi sentivo più quello messo da parte, ma quello cercato dagli altri. Iniziai a bere sempre di più. Delle volte tornavo a casa ubriaco. Mamma se ne accorgeva ed aspettava già alla porta.

Poi inizio a mollare il calcio. Inizio a non avere più voglia di andare. All’età di quindici anni avevo già fatto dei provini con l’Inter, con il Bologna e con l’Atalanta. Io dovevo andare al Bologna. Le giovani leve del Bologna volevano farmi provare. Ma io non ci sono voluto andare perché avevo in testa altro.

Avevo in testa di divertirmi e stare come stavo tutti i giorni. Stavo bene. Tutto quello che mi stava succedendo, per me era stare bene.

Però mio papà, che credeva molto in me, non me l’ha mai perdonata. Ha avuto una grossa delusione. Lui aveva sempre creduto in me fin da piccolino. Mi portava al campo di calcio. Mi prendeva scarpette e tutto quello che mi occorreva. Se sbagliavo qualcosa, lui c’era per consolarmi. Però io avevo deciso di mollare. Gli ho detto che non sarei più andato a giocare e lui non mi ha più parlato per un mese e più.

Sono passato dagli abbracci che mi dava il mio papà, a non averne più perché non mi salutava neanche il mattino. Mio padre mi vedeva in casa ma non mi salutava. Però poi, essedo un padre, non è riuscito a continuare ad evitarmi. Ero sempre suo figlio. Ma da quel momento in poi, ogni volta che mollavo qualcosa, mi rinfacciava sempre che, tanto, avrei mollato come avevo fatto col calcio.

Sempre.

Ed io nel vedere il mio papà, prima orgogliosissimo di me e poi per nulla, non mi faceva stare bene.

Invece di migliorare io già pensavo che, con l’inizio delle superiori, già a settembre, avrei iniziato a marinare la scuola.

E così faccio.

Ma non un giorno o due giorni.

Cinquanta giorni di fila.

Finchè un giorno la scuola chiama a casa. Risponde mia mamma e le dicono: “Ma suo figlio dov’è? Si sente male?”

Mio figlio esce di casa tutte le mattine. Lo vedo io

Sicché torno a casa. Mia madre è incavolata nera. “Dove sei stato???”

Io andavo nel supermercato della città a fare acquisti per bere di prima mattina, per fumare le sigarette, per fare casini. Poi tornavo a casa come nulla fosse successo e continuavo la giornata.

Così ho fatto per cinquanta giorni, poi mia madre lo ha scoperto ed ho mollato anche la scuola.

Un’altra delusione per la mamma.

Mia mamma era incavolata. Non mi parlava più nemmeno lei. Anzi; con lei litigavo spesso perché non volevo sentire niente da lei. Praticamente da dicembre di quell’anno, ho passato tutto un anno a vagabondare, a fare casini in giro…è in quel periodo che succedono i primi litigi con gli amici…botte…io inizio a portare i problemi in casa…la gente mi osserva, ed inizia a dire alla mamma che io faccio casini fuori, che mi vedono strano…

Io nascondevo tutto e trovavo una scusa ogni volta.

A settembre dell’anno scolastico successivo, mi convincono a frequentare ancora la scuola. Io inizio la stessa scuola che avevo abbandonato. Tutto per fare contenta mamma e non perché io credessi in qualcosa. Speravo che almeno non mi avrebbe più detto niente e si sarebbe calmata. La vedevo talmente nervosa che volevo accontentarla per farla stare tranquilla.

Però in quello stesso anno ricomincio a marinare la scuola, a bere e mi ritrovo nel supermercato a fare le stesse cose dell’anno prima. Un giorno mi ritrovo nella pineta. Lì c’è un amico della scuola che si sta rollando una canna. Io arrivo lì con la mia birra e lui mi dice; “Vuoi fare due tiri?”.

Ed io: “Perché no?”

E’ stato un alleggerirsi un po’. Tutte quelle delusioni che avevo dato, tutte le mie problematiche, per un attimo erano sparite. Mi sono sentito felice. Contento. Un po’ più leggero.

Da lì ho cominciato ad andare tutti i giorni in questo parco, con questo amico, a fumare le canne.

Da lì è partita una sequenza…da una canna sono arrivato a fumarne 15 /20 al giorno.

E non solo; ci bevevo pure insieme. Perciò tornavo a casa ubriaco, fatto di cannoni.

Mia madre mi trova cartine in tasca, accendini, sigarette… Inizia a preoccuparsi sempre più…mi vengono a cercare in giro…gli vanno a dire che sono caduto con lo scooter e che ero ubriaco…le vanno a dire che facevo risse in giro.

Continuo così per un po’ di anni finché mi trovo a farmi l’ennesimo cannone con un amico. Ero in un garage abbandonato con altri tre o quattro, a fumare tutte le sere. Solo che quella sera c’è un altro ragazzo. Noi sapevamo che lui fumava altro. Comincia a dire che il giorno dopo avrebbe portato qualcosa di più forte, qualcosa di più pesante. “So io dove andare; ve la porto io” ci diceva.

E noi rispondiamo: “Va bene. Alle 23.00 ci vediamo qui”.

A me non mi è mai passato per la testa la frase: “Ma cosa sto facendo?”. Sapevo che ci avrebbe portato qualcosa di strano ma non sapevo cos’era. Il giorno dopo vado all’appuntamento e vedo che lui tira fuori un pallina, un pezzo di stagnola e dei sassolini marroni (era eroina). Ho preso e ho fumato.

Mi sono sentito abbracciato. E’ stato un po’ come non pensare più a niente.

Da lì son successe tante cose che hanno fatto star male le persone che mi amavano… perché poi, tutti i giorni mi dovevo fare. Ho capito veramente che stavo bene (secondo me). Io credevo di stare bene.

Il lunedì…il martedì…tutti i giorni avevo sempre bisogno di qualcosa.

In casa inizia a sparire di tutto. L’oro, le televisioni, il computer, telefonini, roba di valore…qualsiasi cosa che poteva essere soldo, io la facevo sparire.

Non solo.

Iniziavo a non tornare più a casa. Mio padre però sempre mi veniva a cercare e sempre mi trovava.

Solo che una volta sono stato tre giorni senza tornare a casa. Son partito e mi si è spento il telefono perché era scarico. Mio padre è impazzito. Mia madre ha chiamato i carabinieri perché credevano mi fosse successo qualcosa di grave. Ma chi mi ha trovato non sono stati i carabinieri…è stato papà…che mi ha bussato al finestrino…io ero lì, sballato da tre giorni. Piangendo mi ha detto: “Ora vieni a casa che ora ci pensiamo noi a te”. Io sono entrato in casa ed ho visto mia madre che si è strappata i capelli. Non è un modo di dire. Si è strappata i capelli dalla disperazione. Da lì hanno cercato di farmi fare l’astinenza a casa. Mi hanno chiuso in casa…con mio padre, mi madre e mia sorella in casa con me ventiquattr’ore su ventiquattro…che mi accontentavano in tutto.

Se volevo la cioccolata, arrivava la cioccolata.

Se volevo questo avrei avuto questo…se volevo quello avrei avuto quello.

L’importante era che io fossi stato bene.

Ma alla fine non me ne fregava, perciò scappavo di casa, spaccavo le finestre, spaccavo i vetri pur di saltare la finestra. In qualche modo riuscivo a chiamare lo spacciatore che me la portava sotto casa. Rubavo nei portafogli…E di nuovo mi ritrovavo a rubare tutto quello che poteva diventare “soldi” per andarmi a procurare la mia dose. All’ennesima fuga da casa, mio padre e mia sorella mi vengono a prendere emi dicono che mi avrebbero portato al Sert.

Al Sert mi somministrano metadone e psicofarmaci. Gli psicofarmaci mi stendono. Passo due o tre mesi a mangiare e dormire. Dovevo essere imboccato perché non riuscivo a portare la forchetta alla bocca. Mia madre mi imboccava. Poi, pian piano, abituandomi agli psicofarmaci, riesco a camminare ed a muovermi. Un po’ di autonomia…Ho fatto così per cinque o sei mesi.

Quando uscivo dovevo comunque uscire accompagnato ma, all’ennesima fiducia che mi danno (perché avevano iniziato a farmi uscire da solo un’altra volta) la prima cosa che ho fatto è stato chiamare lo spacciatore, per prendere cocaina. Ero arrivato fino alla cocaina. E con la cocaina ho iniziato a combinare danni su danni

Ho fatto tre incidenti quasi mortali, perché ho buttato via tre macchine. Facevo star male tutti i miei familiari. Mio padre, mia madre e mia sorella non erano più loro. Vivevano solo per me. Ma io non facevo niente per loro. Li facevo stare male e basta.

Però nel 2008 a mio papà gli trovano un tumore i polmoni e, vedendo come si stava riducendo, mi è scattato dentro qualcosa. Volevo fare qualcosa per lui. Io ero il classico tossico che lavorava per procurarsi la droga. Io ho sempre lavorato. Non ho mai fatto fatica a lavorare. Anzi. Però aveva tutto lo stesso scopo. Ma in quel momento ho smesso di andare a lavorare e mi sono dedicato al mio papà.

Però avevo bisogno di drogarmi per stargli affianco, perché vederlo come si stava riducendo…io che non avevo mai fatto niente per lui…sentivo che dovevo stare accanto a lui.

Nel 2011 muore.

E da lì, quella figura paterna che sempre mi era stata vicina…quando mi è mancata… ho provato una sofferenza che non riuscivo a sopportare.

L’anno dopo anche mia sorella si ammala di un tumore al seno.

Io rivivo la stessa cosa del papà. Perciò l’accompagno a fare la chemio. L’accompagno a fare la radioterapia. Lei perde i capelli. Poi perde i denti. Ma io dovevo stare lì, vicino a lei. Per forza.

Nel 2012 muore anche mia sorella.

Io mi ritrovo in casa con mia madre che è disperata.

Io combinavo danni da sempre.

Non è che mi veniva in mente di cambiare per farla star tranquilla. No. Stavo talmente male che non me ne fregava degli altri.

Così mia madre inizia a lasciarsi andare.

Era sempre stata una donna combattiva, una donna che aveva portato avanti tutto. Veramente tutto, e nonostante quello che io combinavo.

Tutta la sua vita ha fatto sacrifici per me e per gli altri ma, a quel punto, si è lasciata andare. Ha iniziato a non mangiare più, a non alzarsi più la mattina… Non aveva più voglia di vivere…”

 

Il ragazzo si interrompe…si commuove…gli viene da piangere…qualcuno gli tende una mano per non farlo sentire solo…gli studenti presenti in sala gli battono le mani per incoraggiarlo…tutto questo senza che nessuno fiati…non ci sono parole più commoventi di quelle del racconto che stiamo ascoltando.

Il ragazzo continua.

 

“Io la vedevo che non riusciva a fare niente…la guardavo ed anche io ero impotente. Ad un certo punto lei ha iniziato a lamentarsi di notte, mentre dormiva. Io mi sono preoccupato. Ho chiamato il dottore. Le hanno dato degli psicofarmaci per calmarla ma si vede che l’effetto è stato il contrario, perché le notti seguenti urlava ancora di più.

Si lamentava.

Io inizio a dormire vicino a lei, perché sono molto preoccupato.

Un giorno torno a casa alle quattro di notte.

Ennesima serata fuori.

Arrivo a casa. Vado a letto. Lei parla nel sonno. Come faceva sempre. Verso le sei mi addormento e quando mi risveglio, non sento nessun suono. Nessun rumore. Nessun lamento. Mamma era di fianco a me ed era morta.

Il mio primo gesto è stato alzarmi, urlare e distruggere tutto quello che avevo vicino. Ho iniziato a prendere vasi, televisione…avevo il telefono in mano ma non riuscivo a fare un numero telefonico. Alla fine riesco a chiamare Rita (una persona che mi ha aiutato tanto e che continua ad aiutarmi qui dentro). Lei viene per aiutarmi, per cercare di farmi star calmo. Lei mi sta accanto e mi aiuta a fare tutto quello che si deve fare per un funerale. Rimano in casa da solo.

In quel periodo erano già svariati mesi che non pagavo più niente. Affitto, acqua, luce, gas …niente.

Mi avevano staccato tutto perché ogni soldo che avevo, lo buttavo in droga.

Allora io avevo attaccato abusivamente il gas…

La sera accendevo le candele per farmi luce…

Prendevo secchi di acqua alla fontana e me li portavo in casa…

Inizio a portare in casa delle persone poco raccomandabili ed inizio a spacciare. Nella mia vita io non l’avevo mai fatto. Ma in quel momento non avevo un soldo, mi dovevo arrangiare…

Portavo in casa spacciatori e drogati (che si facevano con me, in casa). In giro c’erano stagnole e siringhe… Non mi prendevo più cura di niente.

Vedevo quella casa che era diventata silenziosa. Era vuota. I posti dove c’erano papà e mia sorella, erano vuoti. E anche io ero pieno di vuoto. Un vuoto che colmavo solo con la droga.

Andavo al bar dove tutti mi conoscevano e prendevo droga, fregandomene degli sguardi delle persone che mi avevano visto nascere.

Una mattina, verso le cinque, sento delle botte forti alla porta. Sono i carabinieri. Mi entrano in casa. Mi perquisiscono. Mi dicono di tirar fuori tutto… perché sanno tutto. Ma quel giorno non avevo niente. Mi dicono: “Non hai niente? Allora facci vedere i contatori”. Qualcuno aveva detto loro qualcosa. Io ho capito subito. Li ho portati giù ed ho fatti vedere tutto: “Ecco, sono stato io a farlo”.

Mi portano nella caserma dei carabinieri un paio di giorni.

Esco e mi dicono: “Non hai più al condizionale. Sei pulito. Puoi uscire. Sei libero, ma non hai più una casa”

Era vero. Non ce l’avevo più. La casa me l’avevano tolta. La casa era in affitto. Mio padre era ferroviere. La casa era delle Ferrovie. Io ero vicinissimo alla stazione.

Perciò mi sono ritrovata sulla strada.

Uscito da lì, io non avevo niente con me, se non una maglietta ed un pantalone. Nient’altro. E non avevo nemmeno dove andare a dormire. Né dove andare a rifugiarmi.

Era gennaio 2015 e faceva freddo.

Non sono mai stato abituato a vivere sulla strada. Non accettavo di essere finito così. Perciò sono dovuto andare alla Caritas… ho dovuto aprire porte di garage o di case abbandonate, per trovare un posto caldo. Un posto coperto. Andavo a rubare nei bidoni, nei supermercati per mangiare…Andavo nelle chiese per chiedere l’elemosina…andavo a dormire sulle panchine e poi…Poi quello che mi faceva male era la solitudine. Tutti mi evitavano. Se io passavo di qua, la gente cambiava la strada. Quello mi faceva star male veramente.

Una mattina (siamo al 22 settembre 2015)…sono le dieci di mattina e non mi tengo in piedi. Non riesco a stare in equilibrio. Non ero contento di come stavo e volevo andarmi a prendere l’ennesima pallina. Ero già d’accordo con lo spacciatore che ci saremmo ritrovati a due chilometri da lì. Dovevo prendere l’autobus. Passa l’autobus ma non ce la faccio a correre. Cammino in modo precario… inizio a correre per cinquanta metri. Dovevo arrivare alla fermata. C’era una curva. Scivolo. Cado. L’autobus mi prende in pieno.

Io non mi ricordo tutto…Io non so come ho fatto…ma a mezzo metro dall’autobus mi sono scansato e mi ha preso solo le gambe. Non fosse andato così ora non sarei qui a raccontarlo.

Comunque cerco di alzarmi ma, come tento di farlo, svengo per il dolore e mi ritrovo in un ospedale.

Lì mi operano. Mi dicono: “Dai che ti è andata bene, appena ti riprendi tornerai a casa”

A casa. Quale casa? Io non ho una casa. Avevo tutte e due le gambe ingessate. Una dall’anca in giù. L’altra dal ginocchio in giù.

Dove sarei potuto andare?

Sicchè mi chiamano due assistenti sociali e riesco a farmi aiutare in qualche modo. Mi mandano in un ospedale pagato dalla ASL. Ventun giorni.

Arrivo lì e ci trovo un’infermiera che era alle scuole medie con me. Io neanche la ricordavo.

E’ stata lei a riconoscermi ed a farmi ricordare (tramite episodi e racconti) che eravamo a scuola insieme. Lei subito si è attaccata a me, cercando di aiutarmi in tutti i modi, perché mi aveva conosciuto in un modo e lì mi aveva rivisto in un altro.

Lei mi ha sempre incoraggiato.

Mi diceva: “Vedrai che troveremo una soluzione…vedrai che ce la farai”. E si è portata dietro le altre infermiere ed OSS dell’ospedale. Io mi sono sentito accettato per quello che ero. Nessun altro mi stava più vicino oramai.

Grazie a loro io non ho fatto ventun giorni. Ho fatto quattro mesi lì con loro. Perché dopo ventun giorni la ASL non pagava più. Però, grazie a loro, io sono rimasto in questo luogo più che potevo.

Arriva dicembre 2015. Io da lì a poco sarei uscito dall’ospedale. Non sapevo dove sarei potuto finire. Però c’era una persona che, in quel periodo, tutti giorni si avvicinava a me e mi faceva tante domande. “Cosa ti è successo? Come mai sei finito così? Vuoi una mano? Hai bisogno di qualcosa?”

Io non sapevo neanche chi fosse questo tipo. Così dopo un po’ di giorni che veniva e mi domandava, io gli risposi: “Che cazzo vuoi da me? Perché non vai via?”

Lui non se ne è andato. E’ rimasto lì dicendomi che non si sarebbe mai girato dall’altra parte, perché la mia vita valeva ancora qualcosa. “Sono dell’Associazione di San Patrignano e ti voglio aiutare”..

Io, quando ho sentito “San Patrignano” mi sono spaventato.

Io a san Patrignano non ci andrò mai! Là sono tutti matti!”

Ho detto proprio queste parole.

La mia paura più grande era l’astinenza.

Lui mi ha detto: “Daniele, prendi questo treno che passa. Perché se vai oltre, tu lo sai quello che ti potrebbe capitare”.

Io sono rimasto due o tre giorni muto, senza dire niente.

Dicevo però tra me e me: “Daniele, hai trentasette anni, cosa vuoi fare della tua vita?”

Sicché quando è ripassato Enrico (questo era il suo nome) l’ho chiamato e gli ho detto: “Dammi una mano. Ho bisogno di aiuto. Voglio fare il percorso. Voglio entrare in comunità”.

Da lì ho sentito le persone vicino. Lui tutti i giorni veniva ed io lo sentivo vicino.

Sono entrato qui a San Patrignano tre anni e quattro mesi fa, nel gennaio 2016.

Tante cose sono cambiate.

Sono entrato qua che ero solo. Qui non mi sento più solo.

Sono entrato qua che non avevo la famiglia. Mi sbagliavo. Qui ho una famiglia. Un’enorme famiglia. Questi sono tutti i miei fratelli e le mie sorelle.

Sono entrato che non avevo voglia di vivere ed adesso ce l’ho. Mi sento vivo.

Vivo di emozioni.

Prima per me l’emozione più bella era quando mi facevo. Quella era la mia emozione.

Invece è bello vivere anche di momenti come questo. Come adesso.

Non ho mai dato niente a nessuno. Il mio problema più grande era che io ero qua ed i miei no. Persone rispettabili ed amate da tutti. Io ho sempre fatto casini. Io sono ancora qua e loro no. Io non lo accettavo questo. Doveva toccare a me di morire, non a loro. Per me era così.

Però ora mi dico che, se sono qua, posso dare qualcosa a qualcuno. Prima io non ho mai dato niente a nessuno. O poco. Voglio renderli orgogliosi di me. Anche se non posso avere un abbraccio, il loro perdono…adesso li voglio rendere orgogliosi. Tutti i santi giorni. E voglio dare qualcosa a qualcuno.

Ad un amico. Ad un’amica…ad una moglie…ad un figlio … ad una famiglia … a un ragazzo che entra. Questo voglio fare adesso.

Grazie. Questa è la mia storia”

Marco

 

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