Il pianto di Nedo Fiano

IN RICORDO DI NEDO FIANO, GIUNTO IN CIELO

Lo ricordo bene quel pranzo alla “Taverna da Ivo” del 9 gennaio 2006. Ero con Nedo Fiano, la moglie ed un cameriere gentile che ci stava elencando i piatti del giorno.

Nedo sorrideva e sceglieva. Io mi sentivo una privilegiata della vita ad averlo accanto e poter sentire ancora altre sue testimonianze.

Poi, improvvisamente, tutto è cambiato. Ricordo il cameriere allontanarsi e Nedo scoppiare a piangere.

Così.

Dal nulla.

Un pianto disperato, fatto di lacrime che emergevano da un dolore sovrumano quanto antico.

Io ero senza parole e senza spiegazioni.

Non riuscivo a capire cosa stesse accadendo.

Un attimo prima tutto era rosa ed un attimo dopo tutto era nero.

Ricordo che la moglie gli strinse teneramente la mano ed a me, con un tono delicatissimo fatto di parole sussurrate, mi disse: “Non si preoccupi professoressa. Nedo fa quasi sempre così dopo un incontro nelle scuole. Ricordare è un dolore enorme per lui. Ma lo fa perché i ragazzi devono sapere!”

Quel pianto improvviso mi insegnò più di mille racconti sull’olocausto.

Poi si ricompose, si asciugò le lacrime, la vita riprese il suo colore rosa e la sera, a cena a casa mia, tutto era tornato sereno.

Ma andiamo indietro di qualche mese. Andiamo al settembre 2005 e, precisamente, ad una lezione con una domanda precisa di un mio studente: “Lei prof che cosa ne pensa dei negazionisti? Di quelli che dicono che la Shoah non è avvenuta o che, comunque, non è stata così grave come ce la raccontano?”

Come potevo rispondere io ad una domanda che andava a rimestare nella melma della storia umana dove, al male sconfinato, si era aggiunta anche la negazione di quello stesso male. Dove il grido disperato era stato sottoposto all’ulteriore tortura di chi sibilava ostinatamente: “Ma non è vero che è stato!”.

Ricordo che ero appena tornata dal mio secondo viaggio in Israele e, in quell’occasione, avevo coltivato parecchie belle amicizie del mondo ebraico. Così chiesi aiuto a loro: “Ho bisogno di una persona che sappia parlare ai ragazzi. Qualcuno che racconti quello che ha visto con i suoi occhi e che li sappia coinvolgere. Non voglio un relatore storico. Voglio un testimone”.

Ed i miei amici mi misero subito in contatto con Nedo Fiano.

E lui accettò di venire.

Arrivò a Fabriano in una giornata fredda di un otto gennaio plumbeo. Il giorno dopo avrebbe avuto un incontro con i miei ragazzi dell’ITIS, la scuola in cui insegnavo allora.

Avevo studenti dal senso pratico e dall’intelligenza vivace. Proprio grazie a queste due loro caratteristiche avevo iniziato ad organizzare incontri con personaggi di spessore che affrontavano “Temi scottanti” , così avevo chiamato quel progetto.

L’anno precedente era partito come una proposta solo per alcune classi ma poi tutti gli alunni (con quel passa parola pieno di fermento che è più efficace di mille parole dell’insegnante) avevano voluto partecipare a questi incontri.

Così quel giorno, lunedì 9 gennaio 2006, tutta (ma proprio tutta!) la scuola era scesa in aula magna per ascoltare Nedo Fiano.

Ricordo che Paolo, un mio alunno di allora, così la settimana dopo iniziò l’articolo per il giornalino della scuola:

“Il 9 gennaio 2006, al rientro dalle vacanze natalizie, abbiamo sbattuto la faccia contro le porte dell’inferno! Proprio così. Un signore, dalla cattedra della nostra aula magna, ci ha accolto appena arrivati, con queste parole: “Ragazzi, fate attenzione, oggi io vi racconterò l’inferno.”

Per farci iniziare il nostro viaggio ad Auschwitz, la nostra prof. di religione ci ha mostrato un documentario di poco più di 14 minuti, con immagini che chiudevano lo stomaco ma aprivano gli occhi.”

Ancora oggi, ogni anno, ai miei studenti, racconto un particolare accaduto all’inizio di quell’incontro.

Proprio all’inizio!

Io e Nedo stavamo entrando in un’aula magna gremitissima di studenti e per arrivare alla grande cattedra posta in alto, dovevamo per forza di cose passare tra due file del pubblico.

Tutto accadde proprio mentre stavamo passando tra quelle due file.

Improvvisamente, alla nostra destra, un mio alunno del quarto anno, alzò il braccio destro per imitare il saluto nazista. Rideva sommessamente mandando occhiate complici ai suoi compagni seduti vicino a lui.

Fu questione di un attimo.

Alzò il braccio.

Rise di nascosto, col modo di fare dei bulli di periferia e poi, in mezzo secondo lo riabbassò.

Giusto il tempo di attirare l’attenzione dei vicini che, come perfetti “gregari” non delusero le sue aspettativa e risero bassamente sperando di accaparrarsi un po’ della sua approvazione.

Il tutto avvenne proprio nel momento in cui passavamo alla loro altezza: io e Nedo.

E mentre io cercavo di placare la mia voglia di cacciare dall’aula magna quel bullo in erba, vidi Nedo vedere e proseguire.

Come se nulla fosse.

Più si avvicinava alla grande cattedra sul podio dell’aula magna, più si faceva silenzio.

Si potrebbe dire che è stato il suo passo lento e deciso, a dare la cadenza al silenzio.

Salimmo sulla pedana. Ci sedemmo avanti ai microfoni.

Io non dissi niente.

Era come se il tempo fosse stato sospeso dalla presenza di quel grande uomo e percepivo che ogni eventuale mia parola di presentazione sarebbe stata assolutamente fuori luogo.

Vidi Nedo guardare i ragazzi in silenzio.

Nell’aula magna anche una mosca avrebbe fatto confusione.

Poi lentamente si alzò, aprì una valigetta e ne tirò fuori la divisa dei campi di concentramento.

La aprì all’aria dell’aula e la pose sulla grande cattedra, facendo pendere sul bordo la parte finale.

Nessuno fiatava.

L’atmosfera era surreale.

Poi si alzò e si avvicinò al microfono posto sul leggio alla sua destra e, inaspettatamente, iniziò ad urlare frasi in tedesco. La sua voce baritonale entrò in ogni fessura portandoci tutti in luoghi angosciosi e tempi dolorosi.

Non capivamo quel che urlava ma ne intuivamo il pericolo.

Poi si zittì di colpo.

E con una calma sacra ci portò ad Auschwitz con lui.

I ragazzi non fiatavano.

I cuori battevano allo stesso ritmo.

Tutti stavamo marciando con lui verso l’inferno.

Paolo, il mio alunno che si era offerto di scrivere l’articolo per il giornalino della scuola, avrebbe poi raccontato:

“Nedo Fiano si è alzato in piedi e con una calma spaventosa ci ha dato subito un insegnamento:  “Questa non è una lezione, ma LA lezione! Non perché la faccio io, ma perché è una lezione che viene da molto lontano. UNICA.

Carissimo Nedo, ora che sei fra i giusti del Cielo, ora che ti stanno portando in trionfo perché hai avuto il coraggio e la forza di raccontare l’inenarrabile, leggi quello che scrisse di te Paolo nel nostro giornalino.

Sii felice di quello che hai fatto.

Io ti ho visto a casa mia scrivere il tuo secondo libro.

Ci stavi lavorando e ad ogni pausa, scrivevi.

Parlavi.

Narravi.

Scrivevi.

Testimoniavi.

Ti giuro che mi sarei voluta metter in ginocchio di fronte alla tua dignità.

Ho cercato di essere all’altezza della gratitudine che sentivo per la tua presenza, raccontando OGNI anno la tua storia a TUTTI i miei studenti.

Ti conoscono tutti.

Anche i miei alunni del primo anno di quest’anno.

E ricordo perfettamente quando tu uscisti dall’aula magna e la persona che avrebbe dovuto, non venne a salutarti. Aveva da fare. Io mi scusai per lui con te. Tu mi dissi: “Non ti preoccupare Maria Cristina. Ci sono abituato. Sapessi quante volte, nelle scuole…”.

Il seguito della sua frase non lo scrivo pubblicamente.

Ma quel giorno ho avuto conferma che il cambiamento non passa mai per le istituzioni ma per le persone.

Lascio la parola a Paolo, il mio alunno-giornalista di allora.

Ha iniziato a parlarci dei suoi primi e “normali” anni di vita. Poi, tutto si è fermato improvvisamente.

L’arresto e il carcere senza aver commesso alcun crimine. La paura e la fame. La solitudine e l’emarginazione.  La sua unica colpa? Essere ebreo.

E dopo il carcere, il campo di sterminio.

Nedo è stato con tutti noi ragazzi, per parlarci dell’inferno, del campo di sterminio.

Un campo concepito per essere un progressivo allontanamento dalla vita, con la distruzione interiore dell’uomo. E questo, fin dal viaggio di andata (sola andata, per moltissimi!).

Sette giorni e sette notti, in un vagone del treno merci, in piedi, tra morte, urina e feci.  

Noi tutti dentro quell’aula ci siamo imbarcati sul treno con lui ed abbiamo percorso ogni singolo istante insieme a Nedo, perché ci parlava con una meticolosità di particolari che rendeva impossibile la disattenzione.

Il momento dell’arrivo nel lager, ci ha spiegato, veniva accolto da tutti come un  momento di sollievo. Nessuno sapeva quale era la destinazione poichè le soste venivano fatte lontano dalle stazioni, per non dare nell’occhio. Ad Auschwitz i portelloni si aprivano e il treno iniziava a “vomitare” (è stato questo il termine usato da Fiano) le persone che rotolavano giù. Circa 850 in tutto il treno.

All’ingresso del lager c’era scritto “Arbeit macht frei”, “Il lavoro rende liberi”; ma Auschwitz voleva dire forni crematori e sicurezza quasi matematica di non arrivare a sera.

Improvvisamente, nella nostra silenziosissima aula magna, si è ascoltato un urlo. Parole incomprensibili per noi li seduti. Nedo Fiano ci urlava in tedesco ciò che sentiva tutta quella gente al momento di scendere dal treno.

”Svelti, svelti a scendere. Lasciate ogni cosa sul treno”.

Nessuno avrebbe più rivisto le sue cose: tutto ciò che approdava ad Auschwitz diventava, di diritto, proprietà del Terzo Reich.

Il secondo dei comandi che impartivano le SS, era quello di dividersi tra uomini e donne. Un momento tragico per le separazioni familiari! Fu in quell’istante che il giovane Fiano ha abbracciato, per l’ultima volta, la sua mamma.

Fiano parlava, aveva le lacrime agli occhi … e noi pure.

Dopo questa separazione, ogni persona veniva esaminata per vedere se poteva essere utile per i lavori o destinata subito alle camere a gas e i forni crematori.

Chi non riusciva ad arrivare fino alla zona della scelta, perché invalido o infermo, veniva direttamente caricato su un camion, portato in un fosso e bruciato vivo.

Di tutta la famiglia Fiano, gli unici due che siano riusciti a superare le “selezioni” per lavorare, sono stati solo Nedo e suo padre. Ma anche il papà, mandato a lavorare in cava, morì pochi mesi più tardi in un forno crematorio, perché distrutto dalla fatica.

Quindi, tornando al suo arrivo nel Lager, tutto il resto della sua famiglia fu condotta, a sua insaputa, a fare la “doccia”.

Ai prigionieri sembrava una cosa davvero gradevole, dopo 7 giorni e 7 notti di viaggio, l’idea di potersi lavare.

Già: tutto assomigliava ad una vera doccia! C’erano gli spogliatoi, c’era il consiglio di lasciare i proprio abiti in ordine per ritrovarli con facilità dopo la doccia ..ma poi c’era una seconda stanza, a chiusura stagna, dove veniva gettato dal soffitto del “Cyclon B” che, con la temperatura molto elevata provocata dalle vittime ammucchiate, si scioglieva e provocava la morte in circa 5 minuti. Spesso le persone morivano di asfissia perché era finito il Cyclon B.

C’era, nella stanza, un piccolo foro da dove i soldati nazisti vedevano se, all’interno, le persone erano tutte morte.

All’apertura delle porte lo spettacolo era atroce, spaventoso: c’erano cadaveri avvinghiati gli uni agli altri negli escrementi, nel sangue e nelle urine.

A quel punto entravano in scena i nazisti che dovevano prendere le persone una per una, tagliare i loro capelli e fare delle esplorazioni anali e vaginali per cercarvi eventuali gioielli nascosti. Infine strappavano i denti d’oro.

Da lì i cadaveri venivano posti in 3 su delle lettighe e portati, tramite un ascensore, al piano di sopra dove c’era l’“arma di distruzione di massa” per eccellenza: il forno crematorio.

L’edifico esterno, in sé per sé, sembrava normale. I prigionieri, al loro arrivo, pensavano fosse la fabbrica dove avrebbero dovuto lavorare. Anzi: era uno dei posti più belli del campo, dato che intorno ci crescevano anche le piante.

Ma poi si entrava e tutto cambiava!

Temperature altissime c’erano in questo luogo di morte e distruzione.

I forni assomigliavano a quelli delle pizzerie ma con aperture molto grandi, perché potessero contenere molti corpi. Nel periodo che va dal giugno all’agosto del 1944, nel campo di Birkenau, sono state gasate e poi bruciate 10.000 persone al giorno.

La morte era lo scopo unico del campo di Auschwitz.

Già dal mattino iniziava la tragedia. Sotto pioggia, neve, vento, i prigionieri passavano due o tre ore, finché la “conta” non quadrava. Gli uomini dovevano stare sull’attenti e non si potevano permettere di guardare in faccia una SS, altrimenti venivano puniti con la morte. Lì, fermi, a volte per ore, senza cappello e in qualunque condizione meteorologica e fisica, senza eccezione. Se un prigioniero non si toglieva il berretto in tempo di fronte ad una guardia, pagava con la morte. Quello era il momento sacro della disciplina germanica, della perfezioni, della ferocia di trasformare uomini in macchine; la personificazione della paura.

Nel lager c’era l’orchestra. Simbolo di estrema pulizia, a volte suonava delle melodie dolci e a volte feroci: se un prigioniero non rispettava il ritmo della melodia, veniva preso il numero del tatuaggio e, quattro/cinque ore dopo la persona era morta.

Febbre, freddo, perdita degli occhiali, male ai piedi; ma si doveva marciare, altrimenti c’era la morte.

Arrivati nel posto di lavoro c’erano di nuovo punizioni fisiche per chi non riusciva a prendere i suoi attrezzi da lavoro nel minor tempo possibile: supplizi di ogni tipo, con la fame, la sete, il pensiero alla famiglia.

Qualsiasi prigioniero di guerra spera nel ritorno, sapendo che troverà la famiglia ad aspettarlo; ma un ebreo sapeva che, anche se fosse sopravvissuto, non avrebbe trovato più nessuno ad attenderlo. Ecco la grande perfidia nazista.

Gli ebrei non erano più niente: erano stati annientati nel profondo, erano solo corpi senza un’anima che vagavano in cerca di cibo e riparo per cercare di non morire.

Nedo Fiano ci ha detto: “Tutta l’Europa occupata dai nazisti era diventata la materia prima per la fabbrica della morte”. Nedo parla e le lacrime compaiono ancora sui suoi occhi.

Nella sala c’è un silenzio irreale fatto di sgomento e di profondo rispetto.

Io ho visto in lui una persona con una ferita ancora aperta, anche a distanza di 60 anni.

Sembrava che lui fosse ancora là.

L’obiettivo dei nazisti era sterminare per intero la popolazione ebraica e in questo hanno fallito; ma i due milioni e mezzo di vittime nel campo di sterminio di Auschwitz e i sei milioni totali in tutti i campi sparsi tra Germania e Polonia, sono indimenticabili!

Questo è l’unico bene che può nascere dal male: ricordare per imparare a vivere meglio!

Anche la casacca a strisce che Nedo Fiano ha tenuto sul tavolo, durante tutto il suo discorso, ha contribuito a far diventare l’incontro LA lezione!!

Noi ragazzi abbiamo ascoltato e visto, sapendo che quella lezione sarebbe stata per noi, un tesoro di saggezza! Una saggezza scaturita da un racconto fatto col cuore in mano, da un ex deportato; una saggezza che ci incoraggiava a riappropriarci della vita, da protagonisti, per combattere il male.

Ripenso agli occhi tristi di Nedo mentre ci parlava dell’immensa solitudine provata quando la sua famiglia cercava inutilmente aiuto.

Ripenso alla sua denuncia del colpevole silenzio di coloro che, pur abitando vicino ai lager, non volevano vedere!

Concludo con una dichiarazione di Hermann Goring, gerarca nazista, al processo di Norimberga, per sottolineare come i nazisti neanche davanti all’evidenza dei fatti, abbiano saputo chiedere perdono.

“Naturalmente la gente comune non vuole la guerra: né in Russia, né in Inghilterra, né in Germania. Questo è comprensibile. Ma, dopotutto, sono i governanti del paese che determinano la politica, ed è sempre facile trascinare con se il popolo , sia che si tatti di una democrazia, o di una dittatura fascista, o di un parlamento, o di una dittatura comunista.

Che abbia voce o no, il popolo può essere sempre portato al volere dei capi. E’ facile. Tutto quello che dovete fare e dir loro che sono stati attaccati, e di denunciare i pacifisti per mancanza di patriottismo, in quanto espongono il paese al pericolo. Funziona allo stesso modo in tutti i paesi.”

Preziosi Paolo

ITIS, 4 B Informatica

 

P.S. Ancora oggi i miei alunni mi chiedoo: “Ma Nedo Fiano si accorse di quel gesto fatto da quell’alunno in aula magna?”

“Certo, Ma proprio per questo non volle fare nessuna reazione. Ci teneva troppo che quel ragazzo, proprio quel ragazzo lì, lo ascoltasse!”

Il giorno dopo quello studente chiese scusa

 

 

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2 commenti su “Il pianto di Nedo Fiano”

  1. Cara Cristina buongiorno,
    spero tutto bene…
    letto tutto d’un fiato…argomento spinoso e troppo doloroso per lasciare qual si voglia commento, mi limito a pregare per Lui che ha raggiunto la patria Celeste e per tutte le persone che hanno subito e subiscono ancora oggi questo ed altri scempi a causa delle guerre e della follia disumana.
    Un abbraccio.
    Lella

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