“Per Elisabetta si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio. I vicini e i parenti udirono che il Signore aveva manifestato in lei la sua grande misericordia, e si rallegravano con lei. Otto giorni dopo vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo con il nome di suo padre, Zaccarìa. Ma sua madre intervenne: «No, si chiamerà Giovanni». Le dissero: «Non c’è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome». Allora domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. Egli chiese una tavoletta e scrisse: «Giovanni è il suo nome». Tutti furono meravigliati. All’istante si aprirono la sua bocca e la sua lingua, e parlava benedicendo Dio (…).”
Giovanni, caduto da una stella tra le braccia di sua madre, come tutti i bambini è stato un portatore d’Infinito
I bambini non nascono per caso, ma per profezia.
Nel loro vecchio cuore i genitori di Giovanni sentono che il piccolo appartiene ad una storia più grande, così come noi sentiamo che i figli non sono nostri: appartengono a Dio, a se stessi, alla loro vocazione, al mondo.
Il sacerdote tace ed è la donna a prendere la parola: si chiamerà Giovanni, che in ebraico significa: dono di Dio.
Elisabetta ha capito che la vita, l’amore che sente fremere dentro di sé, sono un pezzetto di Dio. Che l’identità del suo bambino è di essere dono. E questa è anche l’identità profonda di noi tutti: il nome di ogni bambino è «dono perfetto».
Zaccaria incide il nome del figlio: «Dono-di-Dio», e subito riprende a fiorire la parola e benedice Dio.
Benedire subito, dire-bene come il Creatore all’origine. La benedizione è una energia di vita, una forza di crescita e di nascita che scende dall’alto, ci raggiunge, ci avvolge, e ci fa vivere la vita come un debito d’amore che si estingue solo ridonando vita.