Diceva Goethe: «Cos’altro è il genio se non quella forza creatrice da cui scaturiscono azioni ben accette a Dio e alla natura, e che proprio per questo hanno seguito e durata?»
Sto leggendo “L’altra verità”, il diario personale dell’immensa Alda Merini sui suoi dieci anni in manicomio.
Una creatura geniale con il dono di scrivere parole creatrici di bene, anche quando ha avuto a disposizione solo l’inchiostro del dolore.
Lei si è fatta regalo per tutti noi, posando su carta la sua anima di santa e poeta (lei si diceva “poeta” e non “poetessa” ed io continuo volentieri sulla stessa sua linea evocativa).
Mi sento smisuratamente grata al Cielo per far nascere, ogni tanto, figlie “strane” ed incomprese dai più, perché possiedono quella mistica disposizione a valicare il piano della piatta superficialità, vedendo l’”oltre” che c’è in tutte le cose.
Alda è una di queste figlie.
Investita dall’Alto con quell’energia divina che dona occhi nuovi e un cuore amante della Vita, ha raccontato tutto di ciò che incontrava.
Ed anche noi, fortunati lettori, è come se fossimo investiti dal suo stesso fuoco interiore, spesso chiamato ispirazione o creatività o illuminazione o (e questo è l’ultimo tassello che io più amo) profezia!
C’è un inedito di Alda Merini pubblicato nel quinto anniversario della morte (avvenuta a Milano il 1° novembre 2009, festa – guarda caso – di “Tutti i santi”), intitolato “Santi e poeti” e datato 2 dicembre 1948.
Alda ha solo 17 anni e se oggi lo possiamo leggere è solo perché una sua amica carissima, Marisa Tumicelli, un giorno che era nella soffitta di Alda, scorse dei fogli sparsi sul pavimento del tutto dimenticati, come fossero un tesoro nascosto ai più.
Alda donò quei fogli ritrovati per caso alla sua amica che, per anni, li custodì come perle rare.
Poi li affidò a don Marco Campedelli, sacerdote veronese, burattinaio e liturgista, grande amico e confidente della Merini che, nel 2015, li fece conoscere a tutti noi attraverso una raccolta pubblicata in un libro di Scripta Editore (a cura di Roberto Fattore, Luca Bragaja, Marisa Tumicelli e, appunto, Marco Campedelli).
Dicevo: sto leggendo “L’altra verità”.
Ieri sera mi sono addormentata con, tra le dita, alcune pagine del libro.
Stamattina volevo regalare a chi di voi vorrà, la lettura di alcune righe sante di questa poeta.
Perché se tra terribili elettroshock, tra cinghie che la legavano per giorni ad un letto, tra puzzo di urina ed urla di terrore, lei è riuscita a guardare il mondo con sguardo di Cielo, allora c’è speranza per tutti noi!
Buona lettura.
“Un giorno successe una cosa meravigliosa in manicomio: ci apersero i cancelli, ci dissero che finalmente potevamo uscire.
Dio! Cosa successe dentro l’anima nostra!
Fu uno sciamare di vestaglie azzurre verso l’alba. E mi venne in mente, anzi ebbi la visione di santa Teresina che amava definirsi “piccola rondine di Dio”.
In quel giorno scesi in giardino di corsa. Mi inginocchia davanti a un pezzetto di terra e mi bevvi quel terriccio con una fame primordiale. Fu un giorno grande, il giorno della nostra prima resurrezione. Da quel giorno cominciammo a vestirci, a pettinarci, a curare il nostro aspetto, perché fuori c’erano gli uomini. Ma, soprattutto, c’era il sole, questo grande investigatore che vede oltre, oltre anche i nostri corpi. E le nostre anime dovevano per forza diventare belle…
Un ragazzo si procurò una chitarra e cominciò a suonare per noi nei giardini del manicomio. Aveva una voce deliziosa, e noi tutte lì, ad adorarlo. Cantava degli spiritual, guardando il cielo. Erano momenti incredibili, perché le sbarre scomparivano e c’era solo l’aria, e c’eravamo noi, diventati piccoli. Tanti piccoli figli di Dio.
Ma un brutto giorno una caposala gliela ruppe appositamente. Allora io piansi…
Ma con l’intervento del prof. Z. riuscimmo a fargliene avere un’altra. E così continuarono le nostre dissacrate preghiere al cielo.
…di quelle rose magnifiche noi non potevamo cogliere nemmeno il profumo, non potevamo guardarle.
Ma un giorno ci apersero i cancelli, che potemmo toccarle con le mani quelle rose stupende, che potemmo finalmente inebriarci del loro destino di fiori, oh, quello fu il tempo in cui tutte le nostre inquietudini segrete disparvero, perché finalmente eravamo vicini a Dio, e la nostra sofferenza era arrivata fino al fiore, e era diventata fiore essa stessa. Dio! Mi parve di essere un’ape gonfia ed estremamente forte.
E per ore, inginocchiata a terra stetti a bere di quella sostanza vitale, senza peraltro fiatare, senza dire a nessuno che avevo incontrato un nuovo tipo di morte.
Divine lussureggianti rose!
Non avrei potuto scrivere in quel momento nulla che riguardasse i fiori perché io stessa ero diventata un fiore, io stessa avevo un gambo e una linfa.”
(Da “L’altra verità” di Alda Merini, pag. 107-110)