«Nonostante i loro corpi siano coperti di sangue, non si lamentano neanche. Rifiutano di rinunciare alla loro fede dicendo “l’insegnamento di Dio è molto chiaro, non possiamo disobbedire. Quindi dobbiamo disobbedire ai nostri genitori e al re”. Hanno detto che è un grande onore morire per Dio sotto la lama di un coltello». E’ il 1791 ed il governatore di Jeonju racconta così le ultime ore di Paolo Yun Ji-chung (alla fine del post metterò la sua storia) e Giacomo Kwon Sang-yeon.
In Corea il Papa è stato accolto da una marea umana di entusiasmo, ma non posso non ricollegare quella fede piena di gioia, al sangue versato da Paolo, Giacomo e gli altri martiri coreani uccisi tra la fine del XVIII e la prima metà del XIX secolo, per la loro fede in Gesù.
In Dio tutto è collegato e non c’è sangue versato inutilmente. Dio vuole la vita e non la morte; ma se gli uomini uccidono, Lui ridà la vita all’ucciso… e gliela ridà alla grande!
Ricordate il messaggio di Fatima, nella sua terza parte?
“Sotto i due bracci della Croce c’erano due Angeli ognuno con un annaffiatoio di cristallo nella mano, nei quali raccoglievano il sangue dei Martiri e con esso irrigavano le anime che si avvicinavano a Dio.”
Ogni figlio di Dio che viene ucciso dalla cattiveria umana ( e il Male sa solo distruggere e dividere), viene esaltato dal Padre con potenza e gloria (perchè il Bene sa costruire ed unire).
Quindi, quando guardiamo quelle immagini bellissime coreane, fatte di maree di persone piene di fede e di gioia, dobbiamo pensare che tutto è nato da una delle più feroci ondate di persecuzione della storia.
Questa volta è il 28 giugno 1795; Mattia Choe In-Gil (un catechista, impegnato a diffondere la gloria di Dio con fede, entusiasmo e devozione) ed altri compagni danno una nuova testimonianza di fede forte e potente.
Alla domanda degli accusatori “Adorate Gesù morto sulla croce?” rispondono con coraggio “Sì”.
Alla richiesta di abiurare la fede aggiungono “Siamo pronti a morire mille volte piuttosto che rinunciare alla fede nel nostro vero Salvatore, Gesù Cristo”.
Non si può dire che Gesù non ci avesse avvertiti: Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai loro tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe; e sarete condotti davanti ai governatori e ai re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani… E sarete odiati da tutti a causa del mio nome; ma chi persevererà sino alla fine sarà salvato (Mt 10, 17-22).
Ma è stato altrettanto chiaro nell’incoraggiarci!
Ieri a Messa, in tutto le chiese del mondo, abbiamo sentito forte e chiara questa parola: “Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna. Molti dei primi saranno ultimi e molti degli ultimi saranno primi». (Mt 19,23-30). Dio non si lascia mai battere in generosità: e se qualcuno lascia addirittura la propria vita per Lui, in eredità riavrà la vita sua glorificata per l’eternità, più centinaia di altre vite umane che prenderanno forza dal suo sangue versato.
Nel giardino di Dio non ci sono sconfitti ma solo vincitori.
Mattia Choe, il catechista a cui gli aguzzini avevano tappato la bocca con la morte, ha continuato invece ad annunciare il vangelo del suo Gesù a migliaia e migliaia di altre creature umane, unite a lui da un misterioso e Divino filo conduttore, tessuto da uno Stilista di lusso.
Mattia Choe continua ancora ad annunciare! I suoi uccisori non sono riusciti ad interrompere il suo desiderio. E’ questo quello che si devono mettere in testa gli aguzzini di oggi e di sempre: più uccidono e più i cristiani crescono.
Dio non contempla la parola “sconfitta” per i suoi figli fedeli.
Come scrive Tertulliano, “il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani”.
Questa volta è il 1799 e Giacomo Won Si-bo viene ammazzato per la sua fede. Muore dopo che, per mesi, è stato picchiato, torturato e spostato di prigione in prigione. Nell’ultimo passaggio di prigione, fu seguito dalla moglie, dai figli, dagli amici, tutti in lacrime. Allora lui disse: «Per servire il Signore e salvare le anime non dobbiamo seguire gli istinti umani. Se sopportiamo tutti i dolori, saremo ricompensati dalla beatitudine d’incontrare il nostro Signore Gesù Cristo e la sua Santa Madre Maria. Se voi restate qui, il mio cuore s’indebolirà. Potrei non essere in grado di perseverare nella fede e commetterei una grave follia verso Dio. Per favore, tornate a casa».
Quanta umanità in quelle ultime parole: “se voi restate qui, potrei non farcela”. Quanta divinità in quei suoi ultimi desideri: servire il Signore e salvare le anime. Ovunque mi giro per conoscere la vita dei santi, sento sempre questa frase: salvare anime. Ogni anima deve essere qualcosa di preziosissimo se perfino Dio è sceso dal cielo per salvarle. Per salvarci. Perché noi siamo anime.
Giacomo Won Si-bo ha desiderato così tanto salvare anime, che tutte le sue biografie raccontano i suoi tentativi di annunciare Gesù anche ai suoi aguzzini, nella speranza di convertirli.
Come si fa a leggere queste pagine senza pensare ai nostri fratelli cristiani in Iraq ed in tantissime altre parti del mondo?
Si sono rifiutati di convertirsi all’Islam e la stanno pagando.
Hanno bisogno del nostro aiuto ma, paradossalmente, sono loro che ci stanno aiutando a rimetterci sui binari della radicalità di Gesù Cristo.
Hanno bisogno delle nostre preghiere ma, incredibilmente, sono loro a rafforzare la nostra coscienza di appartenere a Cristo per essere pronti a vivere il nostro martirio nella quotidianità.
E se dovesse esserci chiesto di più, sono loro a rammentarci che è possibile dire con gioia: “Siamo pronti a morire mille volte piuttosto che rinunciare alla fede nel nostro vero Salvatore Gesù Cristo”.
A noi che spesso viviamo una fede un po’ tiepida, tutto questo provoca una riflessione…un timore di non farcela se dovessimo trovarci nei loro panni… un’ammirazione sincera verso la fede dei nostri fratelli martiri…una nostalgia verso un amore più forte e coinvolgente per Gesù …
Gesù il Salvatore.
E’ per questo che i martiri si festeggiano il giorno della loro morte; perché è in quel giorno che sono stati salvati dal Re dei Re.
Morte per il mondo; rinascita per i cristiani.
Fine per gli aguzzini; inizio per i credenti.
Per noi, i martiri non sono degli dei, perché noi sappiamo che lo stesso unico Dio è insieme nostro Dio e loro Dio… Ai nostri martiri noi non costruiamo dei templi, come fossero dei, ma delle tombe, in quanto sono dei mortali, il cui spirito ora vive con Dio. Noi non erigiamo degli altari per sacrificare ai martiri, ma al Dio unico dei martiri e nostro… ” È a Dio, e non a loro, che viene offerto il sacrificio.
(S.Agostino)
Paolo Yun Ji-chung nasce nel 1759 da una famiglia nobile e conosciuta di Janggu-dong, a Jinsan. Il suo nome adulto, prima del battesimo, era “Uyong”. Francesco Yun Ji-heon, martirizzato a Jeonjiu durante la persecuzione Shinyu del 1801, era suo fratello minore.
Paolo Yun mentre studia per diventare funzionario di Stato inizia a conoscere la fede cattolica. Dopo tre anni di studi della dottrina cattolica viene battezzatonel 1787 da Pietro Yi Seung-hun. Paolo Yun decide di insegnare il catechismo alla madre, al fratello Francesco e a un cugino da parte materna, che sarà battezzato Giacomo Kwon Sang-yeon. Da quel momento decide di proclamare il Vangelo insieme ad Agostino Yu Hang-geom, un parente acquisito per via matrimoniale.
Dopo aver definitivamente lasciato le pratiche rituali tradizionali, specialmente quelle legate ai riti legati ai funerali, in occasione di quello della madre, Paolo Yun diventerà oggetto della furia della corte del Re. Per evitare che fosse lo zio a pagare per le loro colpe, Paolo e Giacomo si consegneranno nelle mani del magistrato dopo una iniziale fuga. Iniziano quindi i tentativi di far abiurare i due da parte delle autorità. La risposta è che la fede “non si può abbandonare, per nessun motivo”. Nonostante la situazione, i due continuano a proclamare il cattolicesimo come vero insegnamento di vita e a proteggere i propri fratelli cattolici dalla persecuzione iniziata dal Governo. Paolo Yun, in particolare, sottolinea l’irrazionalità dei riti ancestrali confuciani alla luce della dottrina della fede cattolica. Il Governatore – a queste loro dichiarazioni – è pronto a punirli con grande severità, la loro unica risposta a questa sentenza è: “Serviamo Dio, nostro padre, e quindi non possiamo disubbidire ai suoi comandamenti”. Anche di fronte alla Corte i due testimoniano la propria fede senza timore, fino a che il Re, accettata l’opinione della sua Corte, ordina l’esecuzione.
Appena la decisione arriva al governatore di Jeonju, Paolo e Giacomo vengono trascinati fuori dalle loro celle e portati alla Porta meridionale della città. Paolo sembra felice come uno che stia andando a un banchetto. Mentre cammina, continua a spiegare la dottrina cattolica a quelli che lo seguono. L’ 8 dicembre 1791 (il 13 novembre secondo il calendario lunare) i due vengono decapitati e muoiono come martiri mentre pregano Cristo e la Vergine. Paolo Yun muore a 32 anni.
Le famiglie – che devono aspettare ben nove giorni prima di ottenere il permesso dal governatore per seppellire i corpi di Paolo e Giacomo – rimangono sorpresi dallo scoprire che entrambi i martiri sembrano essere morti da poco, con il sangue ancora brillante e fresco. I fedeli riescono quindi bagnare alcuni pezzi di stoffa con questo sangue. Questi fazzoletti vengono mandati a monsignor Gouvea, a Pechino e diversi malati, in pericolo di vita, si sentono meglio dopo aver toccato queste “reliquie”.
Nel rapporto del governatore che esegue la sentenza alla Corte si legge: “Nonostante i loro corpi siano coperti di sangue, non si lamentano neanche. Rifiutano di rinunciare alla loro fede dicendo ‘l’insegnamento di Dio è molto chiaro, non possiamo disobbedire. Quindi dobbiamo disobbedire ai nostri genitori e al re’. Hanno detto che è un grande onore morire per Dio sotto la lama di un coltello”».(tratto da Asia News)
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